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EQUIPARATO A VITTIMA DEL DOVERE IL MILITARE COLPITO DA MALATTIA PROFESSIONALE

Negli ultimi anni sono state attive in Italia alcune commissioni parlamentari d’inchiesta con l’obiettivo di approfondire il tema della pericolosità dell’esposizione dei nostri militari delle Forze Armate all’uranio impoverito, asbesto e ad altre sostane nocive colpevoli dell’insorgere di tumori.

Le più alte cariche del Ministero della Difesa erano a conoscenza dei rischi per la salute dei militari coinvolti in azioni di pace in territorio straniero. Vi sono inoltre state gravi omissioni nella tutela della salute dei lavoratori e nella bonifica dei luoghi contaminati da sostanze cancerogene.

É quanto emerge dalla relazione finale della “Commissione parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti di deposito di munizioni, in relazione all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno e da somministrazione di vaccini, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni”, presentata negli Atti Parlamentari della XVII Legislatura (7 febbraio 2018).

Le evidenze dell’indagine condotta e i numerosi esperti ascoltati in merito hanno inoltre confermato la correlazione fra esposizione a tali fattori chimici, tossici e radiologici ed i numerosi casi di patologie neoplastiche fra i militari.

L’art. 1 comma 564 della legge n. 266/2005 prevede i soggetti  cd. equiparate alle vittime del dovere.

La previsione normativa in questione delinea una fattispecie aperta a presidio di tutela contro la morte ed i fatti lesivi che attingono il personale militare in occasione di missioni di qualunque natura, purché realizzate in condizioni ambientali od operative “particolari”, per tali dovendosi intendere quelle che abbiano comportato l’esposizione a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto (Cass. n. 24592/18).

La Cassazione, con una recente pronuncia, nel 2019 ha ulteriormente specificato che rientrano nel concetto di “particolari condizioni ambientali” anche  quelle situazioni in cui, pur trattandosi di modalità comuni a tutti o molti lavoratori della medesima categoria, ritenute ordinarie con giudizio e valutazione riferita a conoscenze diverse ed inferiori rispetto alle attuali, venga accertata una valenza di rischio per la salute in siffatte condizioni, chiarendo che nella tutela assicurata ai soggetti equiparati alle vittime del dovere dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 564, sono compresi anche i lavoratori affetti da malattie professionali.

Il concetto di “missione di qualunque natura” di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 364, va riguardato in relazione allo svolgimento dei compiti istituzionali, mentre quello di “particolari condizioni ambientali od operative” va riscontrato, in primo luogo, alla luce del rispetto di tutte le regole dettate dall’ordinamento in relazione alla tutela della salute dei lavoratori.

Ne consegue, che nella prospettiva assistenziale solidaristica che viene in rilievo, ai fini del giudizio sull’ordinarietà o meno del rischio corso dai soggetti considerati nello svolgimento delle loro attività istituzionali, ed in specifico in relazione all’esposizione all’azione di sostanze nocive come le fibre di amianto, la valutazione giudiziale dovrà essere formulata anche ora per allora, con riferimento cioè alle maggiori conoscenze oggi disponibili ed ai più elevati standard protettivi oggi assicurati agli appartenenti alla stessa categoria di lavoratori.

Lo ratio è quella di evitare il paradosso per cui ai lavoratori che si sono ammalati per aver operato in condizioni di maggior rischio non venga corrisposta alcuna concreta provvidenza quando, per ipotesi, il modello di svolgimento dell’attività lavorativa allora praticato, pur in sé lecito ma assai pericoloso, non fosse tale da scongiurare il rischio di insorgenza di una determinata malattia professionale (come ad es. il mesotelioma).